Il cinema sotto le stelle: SACCO E VANZETTI – GILDA – LA RICOTTA
SACCO E VANZETTI
(Italia-Francia/1971) di Giuliano Montaldo (125′) Introduce il regista Giuliano Montaldo
Rivisto oggi, restaurato e introdotto dalle parole del vecchio regista, il film impressiona. Non solo p er la sua bellezza estetica, l’interpretazione di un magistrale G. M. Volontè, la descrizione chiara e partecipata del contesto ma soprattutto per l’attualità di questo film. La discriminzazione degli emigranti, non solo italiani, il razzismo implicito, la condanna dei due anarchici per motivi politici, oltre ogni logica processuale, rendono di struggente attualità questa opera. In un secolo si sono ribaltati i ruoli, ora noi sediamo idealmente sulla sedia del giudice Thayer e condanniamo a morte chi cerca aiuto da una fine sicura. Con le parole di Woody: “I’ve got no time to tell this tale, The dicks and bulls are on my trail; But I’ll remember these two good men That died to show me how to live.”
Two good men a long time gone
(Two good men a long time gone, oh, gone),
Sacco, Vanzetti a long time gone,
Left me here to sing this song.
Sacco worked at trimming shoes;
Vanzetti was a peddling man,
Pushed his fish cart with his hands.
Somewhere over in Italy;
Vanzetti was born of parents fine,
Drank the best Italian wine.
Landed up in Boston Bay;
Vanzetti sailed the ocean blue,
Landed up in Boston, too.
Sacco was a family man;
Vanzetti was a dreaming man,
His book was always in his hand.
Being the factory’s best shoe cutter;
Vanzetti spoke both day and night,
Told the workers how to fight.
‘Bout this payroll robbery;
Two clerks was killed by the shoe factory
On the street in South Braintree.
He would cut the radicals down;
Anarchist bastards was the name
Judge Thayer called these two good men.
Katsman, Adams, Williams, Kane;
The judge and lawyers strutted down,
They done more tricks than circus clowns.
He slept along the dirty streets,
He told the workers ?Organize?
And on the electric chair he dies.
And work like Sacco and Vanzetti;
And every day find some ways to fight
On the union side for workers’ rights.
The dicks and bulls are on my trail;
That died to show me how to live.
Sing this song and sing it plain.
All you folks that’s coming along,
Jump in with me, and sing this song.
GILDA
(USA/1946) di Charles Vidor (110′)
Rivisto così, super maxischermo, bianco e nero sfavillante per il restauro, audio originale chiarissimo, Gilda diventa ancora più l’icona del noir dei 40. Rivisto oggi, la prima cosa che sovviene è la somiglianza con Casablanca, diciamo una versione noir del capolavoro di Curtiz. La dark lady è sempre la causa scatenante di turri i mali, la sua sessualità la trappola mortale, i suoi DUE compagni le vittime presdestinate, uno buono e uno cattivo. E’ il modello classico della letteratura americana, una versione cittadina e moderna del Western classici. Ma: Rita Hayworth è un personaggio più complesso rispetto a una dark lady stereotipata. E’ lei stessa piena di dubbi e angosce, tormentata e tormentatrice infelice, bomba atomica, ok, ma anhce ‘persona’. Ridicola la happy end imposta del codice Haynes, e la scoperta moraleggiante che tutti i suoi peccati e trasgressioni era solo finti. E’ la storia di molti noir: svelano una società corrotta e immorale, per poi negarla nel finale posticcio: togliete gli ultimi cinque minuti dai noir classici dei ’40 ed avtrete il vero film. Per questo, però, la colpa non è di Mame – per tuuto il resto, sì.
LA RICOTTA
(episodio di Ro.Go.Pa.G) (Italia/1963) di Pier Paolo Pasolini (35′)
“La società italiana era cambiata, cambiava: il solo modo di vedere in questo momento il sottoproletariato romano era di considerarlo come uno dei molteplici fenomeni del Terzo Mondo” (Pier Paolo Pasolini). Fame, passione e martirio di un povero generico, Stracci, che impersona un ladrone crocefisso sul set di un film su Cristo, diretto da un regista marxista (Orson Welles). Un apologo fulminante e bellissimo, un attacco frontale contro il fariseismo che gli costerà sequestri, tagli e una condanna per vilipendio della religione. (Roberto Chiesi)
Confesso un certo fastidio verso il cinema di Pasolini, e forse anche verso il personaggio stesso. Questo episodio però è da vedere, contiene tutti i temi e le ossessioni pasoliniane: lo squallore delle periferie romane, i borgatari quali metafora della vera umanità, l’improbabile O. Welles portavoce del marxismo pasoliniano. Poi il solito vilipendio alla religione che palesa però un retaggio e una ossessione dal quale il regista non riesce a staccarsi, un po’ come Joyce; la religione come vacua messa in scena in cui il vero Cristo è il poveraccio, il finto ‘ladrone’, che subisce un martirio e una morte sottoproletaria simbolica. Il tutto in un bianco e nero neorealista e vagamente surreale . Un manuale pasoliniano.